Il Consiglio di Amministrazione: codici di autodisciplina e nuovo diritto societario
1. Normativa primaria e normativa secondaria. — In questa relazione si intendono tracciare i sempre più stringenti legami che uniscono le disposizioni del diritto societario con i codici di autodisciplina, nei confronti dei quali si nutrono oggi sentimenti ed atteggiamenti che spaziano dal valore taumaturgico allo scetticismo radicale. Sin da subito si ritiene opportuno introdurre una distinzione definitoria tra la c.d. normativa secondaria, di fatto ben rappresentata dai codici di autodisciplina che recepiscono regole e comportamenti di cui le imprese si dotano in via autonoma e su basi prevalentemente volontaristiche, e la normativa vera e propria, quindi la c.d. normativa primaria, costituita dal corpo legislativo emanato dagli Stati. I codici di autodisciplina, come noto, prendono avvio in Europa nel 1992 con la pubblicazione nel Regno Unito del Rapporto Cadbury: documento che ancora oggi è considerato la Magna Carta della Corporate Governace e dell’autoregolamentazione societaria. Da allora i codici si sono riprodotti in grande numero. In Europa, ad esempio, sono stati emanati decine di codici che presentano forti similitudini tra loro perchè informati a principi guida sostanzialmente comuni (1), a differenza quindi delle normative primarie nazionali ancora caratterizzate da forti connotazioni locali. Di particolare rilievo in questo contesto è la recentissima pubblicazione della Raccomandazione Comunitaria del 15 febbraio 2005, che enuncia i principi guida relativi al ruolo dell’amministratore non esecutivo delle società quotate recependo orientamenti in buona parte condivisi e consolidati nei diversi codici di autodisciplina europei (2).
I codici hanno in comune l’ambizione di fornire risposte lasciate aperte a problemi di governo economico e/o disegnare profili di eccellenza in tema di governance (best practices). Va altresì sin da subito osservato che nel nostro Paese si è molto scommesso sul codice di autodisciplina, ma non sempre è stata posta adeguata attenzione sugli aspetti concreti di tale adesione, che, alla prova dei fatti, è apparsa troppe volte meramente formale, senza cioè incidere efficacemente sulle modalità di esercizio del governo della società emittente (3). E` facile ravvisare in ciò una responsabilità del mercato che, al di là di verifiche letterali e superficiali sulla c.d. compliance, è entrato poco nel merito delle soluzioni di fatto seguite dalle società emittenti per rispondere alle raccomandazioni (alla filosofia verrebbe da scrivere) formulate dai codici: si può quindi affermare che il mercato (per esso i suoi attori più rappresentativi, cioè gli investitori istituzionali) si è scarsamente impegnato perchè fosse chiaro che una governance di qualità rappresenta un elemento distintivo da valutare e premiare di conseguenza. Solo per inciso si osserva che un altro aspetto che ha rallentato un livello di adesione al codice sostanziale, più che formale, è rappresentato dall’assoluta uniformità delle sue raccomandazioni, che non tengono cioè in alcun conto delle specificità , per tutte le dimensioni e i modelli proprietari, delle società emittenti. Il codice di autodisciplina «tratta» infatti senza distinzioni sia le grandi società di elevata capitalizzazione sia quelle assai minori, talvolta reduci da recenti IPO e con flottante risibile. La presenza di norme comuni e indifferenziate — indipendentemente dalle caratteristiche aziendali — ha fatto sì che molte imprese di mediograndi dimensioni accantonassero l’idea di quotarsi, pur disponendo di tutti requisiti, in considerazione non solo degli elevati costi da sostenere inizialmente per l’ammissione al mercato telematico (da qui, tra l’altro, l’idea di Borsa Italia di costituire il c.d. mercato Expandi), ma anche, e soprattutto, per i ricorrenti e considerevoli costi da sostenere per garantire nel tempo uno status di compliance alle raccomandazioni del codice (4).
Passando ora alla c.d regolamentazione primaria (il focus è sempre sulle norme che disciplinano il Consiglio di Amministrazione) è immediato il rinvio alle previsioni dell’ordinamento societario che si occupano della struttura, dei poteri e delle responsabilità degli organi di governo economico, anche per quanto riguarda i meccanismi di nomina, revoca e controllo dei soggetti che li compongono. Con la recente riforma del diritto societario, si avrà modo di chiarire in seguito, si è cercato di entrare maggiormente nel merito delle modalità di funzionamento dell’organo amministrativo, poco o nulla interessato dalle disposizioni del testo unico della finanza, che si era assai più preoccupato di intervenire sul ruolo e sui compiti dell’organo di controllo. Per completezza si ricorda che, nell’ambito della cosiddetta normativa o regolamentazione primaria, vanno altresì inquadrati i provvedimenti legislativi legati alla sfera del market egualitarism, ispirato al principio di assicurare a tutti protagonisti del mercato le stesse garanzie e la stessa tutela. Questo principio è alla base di misure importanti, tra tutte si rammenta la disciplina sulle Opa (che ha per oggetto la tutela delle minoranze in termini di diritto di exit, vale a dire la facoltà di cedere l’investimento azionario alle medesime condizioni negoziate dall’azionista di maggioranza) e le norme sull’insi- der trading (tese a colpire i comportamenti opportunistici da parte di soggetti che fanno uso privato di informazioni price sensitive acquisite in ambito professionale) (5). Nell’ambito della regolamentazione primaria si inserisce poi la legislazione penale. Di recente si è assisto ad un certo giro di vite (si pensi al riguardo a talune disposizioni contenute nell’ormai notissimo Sarbanes-Oxley Act o, a livello nazionale, nella altrettanto nota legge n. 231/2001) (6) con l’inasprimento delle pene per i reati esistenti o con l’introduzione di nuove fattispecie criminose. Sebbene tali norme fungano sostanzialmente da generico deterrente senza sortire sempre gli effetti sperati, non significa che abbia senso l’opzione contraria, vale a dire la depenalizzazione delle piu` rilevanti fattispecie di reati societari, a partire dal falso in bilancio.
(1) Per un primo esame dei principali codici (Winter, Preda, Higgs, Smith, AFEP-MEDEF e Cromme) si rinvia ai brevi saggi pubblicati in questa Rivista, a cura di D. D’ALTERIO e E. FORNARA, nella Rubrica Corporate Governance (n. 6/2004 e n. 2 e n. 5/2005).
(2) Cfr. Raccomandazione della Commissione del 15 febbraio 2005 (2205/162/ CE), pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del Unione Europea del 25 febbraio 2005.
(3) Secondo Guido Rossi i codici stessi, nel tentativo di fornire contenuto alle disposizioni generali delle norme di legge, utilizzano inevitabilmente un linguaggio talvolta generico ed elusivo, tant’è che i codici, per le società che lo desiderano, offrono sovente la possibilità di essere sottoscritti a parole e disattesi nei fatti: «i codici suonano quindi talvolta come incoraggiamento a coltivare vizi privati e pubbliche virtù». Si veda G. ROSSI, Il Conflitto epidemico, Adelphi, 2003.
(4) Il descritto fenomeno è recentemente esploso negli Stati Uniti, dove le imprese quotate stanno sostenendo elevatissimi oneri (si parla nell’intorno dell’uno per mille sul fatturato) per allineare e mantenere il sistema di controllo interno adeguato ai requisiti previsti dalla Section 404 della legge Sarbanes-Oxley. Per un approfondimento si rinvia al saggio di Stefano Fortunato nella Rubrica Corporate Governance di questa Rivista (n. 4/2004).
(5) Si ricorda che la legge comunitaria sul market abuse è entrata in vigore anche nel nostro ordinamento il 12 maggio 2005. Per un approfondimento si rinvia al saggio di Maria Grazia Mulè sulla Direttiva 2003/6/CEE (avente ad oggetto l’abuso di informazioni privilegiate e le manipolazioni del mercato) pubblicato nella Rubrica Corporate Governance di questa Rivista (n. 1/2005).
(6) Sull’argomento si possono tra gli altri consultare in questa Rivista i saggi di Luca Troyer (n. 4 /2004) e Stefano Fortunato e Marco Reboa (n. 5/2004).