I difetti nell'attuale panorama italiano

Il più importante quanto annoso problema è senz’altro rappresentato dall’eccessivo livello di  “burocratizzazione” che è andato a connotare il modello di governance italiano, in particolare il sistema di controllo interno, per un eccesso di sovrastrutture e regole che si sono stratificate nel tempo. All’origine, come detto, il susseguirsi delle numerosissime norme introdotte in questi anni nell’ordinamento nazionale, anche a seguito del recepimento di raccomandazioni delle authorities nazionali (in primis Consob e Banca d’Italia) e degli interventi legislativi europei. Si è così venuto a creare un modello policentrico del controllo (nelle intenzioni del legislatore le “competenze concorrenti” tra organi), che pare oggi assumere le forme di un “reticolo (disarmonico) di controlli”, eccessivamente oneroso, con duplicazioni e sovrapposizioni, che impone una serie di procedure e vincoli non armonici tra loro. Per tutti, la pletoricità degli organismi aziendali (mal contati almeno otto) che a vario titolo hanno responsabilità sul sistema di controllo interno è sintomatica della scarsa efficienza e, per le aree grigie che inevitabilmente si formano, non costituisce neppure la migliore garanzia a fronte del sorgere di possibili malpractices. È pertanto più che mai fortemente avvertita l’esigenza di “semplificare il sistema dei controlli”, in primis in termini di chiarificazione dei ruoli, funzioni e responsabilità tra i diversi organi aziendali, che oggi interferiscono tra loro su più fronti. Gli oneri connessi a tale situazione appaiono insostenibili per le società quotate di dimensioni non rilevanti, tanto che da anni si discute ad esempio dell’opportunità di un codice di autodisciplina più tagliato su misura per le emittenti di minori piccole e medie imprese. Sembra che il Comitato per la Corporate Governance si stia attivando in tal senso.

Un aspetto meno discusso che a mio giudizio merita qualche approfondimento in più riguarda gli amministratori di minoranza, aggiunti con la c.d Legge sul Risparmio: l’intendimento, condivisibile, è stato quello di introdurre figure con maggiore indipendenza rispetto agli azionisti di controllo. Non si è specificata tuttavia la loro indipendenza rispetto ad altri interessi, tipicamente quelli di taluni soci di minoranza, che possono perseguire comportamenti opportunistici a mero vantaggio personale ed a scapito dell’interesse aziendale. Per esperienza personale questo timore è stato confermato. Cerco di spiegarmi meglio, senz’altro l’amministratore di minoranza può rappresentare un valore aggiunto per le società di maggiori dimensioni, dove questi sono generalmente nominati dagli investitori istituzionali che possono garantire candidature di qualità (non a caso ho menzionato prima la designazione di consiglieri da parte di Assogestioni nella stagione delle grandi privatizzazioni), ma nelle società con di minori dimensioni e/o con basso flottante l’investimento per presentare una lista può risultare relativamente modesto e l’amministratore di minoranza risultare portatore di interessi molto molto peculiari.

BACK